Un po' di storia del cinema italiano
Il CINEMA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA
Il regime fascista
dovette prendere atto che i film più scopertamente propagandistici
non avevano molto successo, quindi
non ostacolò la
produzione di film leggeri, scanzonati, di pura evasione che
esaltavano lo stile si vita e i valori della piccola borghesia e i
suoi sogni di ascesa sociale.
Con l'inizio della guerra, nel 1940, la produzione cinematografica crebbe ulteriormente, spinta dal regime. Questo permise ad una serie di giovani registi di cimentarsi in film più realisti: La nave bianca di Roberto Rossellini (1941) e I bambini ci guardano di Vittorio De Sica (1943).
IL NEOREALISMO
'Non pensiamo a niente...Ci ubriacamo, va'...'
da Ladri di biciclette di Vittorio De Sica
In sintesi, le caratteristiche fondamentali del neorealismo:
- Rappresenta la quotidianità nel suo farsi, adottando un taglio tra il reale ed il documentario: il realismo dell'ambientazione ottenuto abbandonando gli studi di posa a favore delle riprese in esterni e girando nei luoghi stessi in cui si svolge l'azione.
- La scarsità di mezzi, non disporre dei teatri di posa dopo il 1944 costringe a girare nelle strade e ad ambientare i lungometraggi nei luoghi autentici.
Il primo
cortometraggio conosciuto della storia del cinema è Roundhay
Garden Scene,
realizzato il 14 ottobre 1888 da Louis
Aimé Augustin Le Prince,
della durata di 2 secondi.
Ufficialmente
però il cinema inizia il 28
dicembre 1895
con la prima proiezione in sala, di fronte a un pubblico. I fratelli
Louis e Auguste
Lumière
avevano inventato il cinématographe,
il cinematografo appunto, un apparecchio in grado di proiettare delle
immagini impresse sulla pellicola
fotografica,
in sequenza rapida, su uno schermo.
La pellicola era già stata inventata nel 1885 da George Eastman.
La prima
proiezione in Italia si tiene pochissimo tempo dopo: già nel marzo
del 1896 i fratelli Lumière fanno le loro prime rappresentazioni a
Roma e Milano. L’anno successivo viene addirittura aperto a Pisa il
primo cinema italiano, tuttora esistente: il Lumière. I primi film
sono dei documentari della durata di pochi secondi.
Il primo
film italiano a soggetto -ossia
con una storia- è La
presa di Roma,
di
Filoteo
Alberini (1905),
un vero e
proprio pioniere del
cinema italiano. Nel 1895 fece
brevettare una macchina da presa (il
kinetografo
Albertini, non certo
perfezionata come
quella dei fratelli Lumiére).
Dopo 10 anni gira La
presa di Roma,
diventa gestore di piccole sale cinematografiche (tra Otto e
Novecento le sale di cinema assomigliano a degli stand di un
luna-park, fumose e promiscue; gli spettatori entrano ed escono a
piacimento; i film proiettati sono brevissimmi) e fonda, insieme ad
altri due soci, la prima casa di produzione con sede a Roma, la Cines
Film che,
nel corso
degli anni, diventerà il marchio più importante della
cinematografia italiana.
In La
presa di Roma viene ricostruito un evento storico, l'episodio
culminante del Risorgimento
italiano: la breccia di Porta Pia e la successiva presa di Roma del
20 settembre 1870. Per la prima volta i personaggi sono
interpretati da attori teatrali e
sarà il primo film storico
italiano.
Il 20
settembre 1905, a Roma, «su uno schermo all'aperto
all'inizio di via Nomentana viene proiettato La
presa di Roma, kolossal
storico di Filoteo Albertini. Con i sette quadri in cui la vicenda è
articolata e i 250 metri di pellicola (circa 10 minuti), il film
appare davvero colossale agli spettatori dell'epoca, abituati a
visioni cinematografiche di pochi secondi (…). Il film è una
geniale operazione di marketing. È considerato il primo film di
finzione del nostro cinema e ricostruisce l'episodio culmine del
Risorgimento, l'ingresso a Roma delle truppe italiane nel 1870. I
pochi quadri che si sono conservati sono statici, abissalmente
lontani dall'idea di cinema che abbiamo noi spettatori del XXI
secolo. E però debbono fare un'enorme impressione alle persone
radunate a Porta Pia. Albertini ha potuto girare nel luogo autentico:
in 35 anni quasi nulla è cambiato, fuori da Porta Pia la Nomentana è
ancora una strada di campagna, e l'irruzione dei bersaglieri nella
breccia suona terribilmente autentica a spettatori che hanno di
quell'evento un ricordo personale» (Alberto Crespi, Storia
d'italia in 15 film).
“La
presa di Roma ha, per il cinema italiano, lo stesso valore di
manifesto visivo che per la Rivoluzione francese ha assunto Il
giuramento degli Orazi dipinto da David nel 1785. È un documento
vivente e ha già la forma di un monumento” (Brunetta, Cent'anni
di cinema italiano, vol. 1).
L'INDUSTRIA
CINEMATOGRAFICA ITALIANA
Essa si
sviluppò a partire dal 1905 intorno a tre grosse case di
produzione: la Cines
Film
di Roma (fondata da Filoteo Albertini), la Ambrosio
Film
(fondata
da Arturo Ambrosio)
e la Itala Film
di Torino (fondata da Giovanni Pastrone). All'inizio la produzione
imitava quella francese, ciò era dovuto alla
mancanza di tecnici specializzati e,
dunque, le produzioni
italiane erano
costrette ad assumere
personale dall’estero e soprattutto dalla Francia: tecnici
e diversi artisti,
soprattutto intepreti
del comico, genere che stava diventando sempre più popolare in
Francia. Nel 1908, ad esempio, la Itala
Film di
Torino assunse dalla Pathè
l’attore comico André
Deed, che andò
a vestire i panni di Cretinetti.
CRETINETTI E LE DELIZIE DELLA CACCIA
Il successo
dei film di Cretinetti spinse le case rivali a produrre altre serie
comiche, come quelle dell’Ambrosio
Film, dove
il personaggio comico viene
interpretato dallo spagnolo Marcel
Fabre, o
quelle di Tontolini e Polidor, interpretate da Ferdinand
Guillaume e
realizzate dalla Cines.
Benché restassero inferiori, per qualità ed originalità ai modelli
francesi, queste serie comiche furono molto popolari all’epoca.
Prodotte in maniera piuttosto economica esse si rivelarono
particolarmente redditizie consentendo ai produttori italiani di
investire maggiori risorse nei film di genere
epico-storico,
costruiti ad imitazione dei film d’arte che si andavano producendo
in Francia nello stesso periodo.
I FILM
EPICO-STORICI
Nel
1908, l’Ambrosio
Film di Torino
produceva il primo film italiano di genere epico-storico: Gli
ultimi giorni di Pompei (regia
di Arturo Ambrosio e Luigi Maggi),
che riscosse
un enorme successo anche oltre i confini nazionali.
Il successo del film incoraggiò i produttori italiani a cimentarsi
nella produzione di altri lungometraggi dello
stesso genere, che
risentiva dell’ideologia imperialista allora dominante sia in
Europa che in Italia (ricordiamo che l’Italia di quegli anni
cercava spazi di conqusita coloniale in Africa. L’invasione della
Libia inizierà il 29 settembre 1911).
GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI
Altri
successi internazionali furono La caduta di Troia (regia di
Giovanni Pastrone, 1910),
Quo Vadis? (regia di Enrico Guazzoni,
1913)
ma
in special modo Cabiria (regia di Pastrone, 1914), un vero e
proprio kolossal, «che ebbe
un successo travolgente e globale. Cabiria esce dovunque, a New York
tiene il cartellone per un anno, Griffith e tutti i cineasti
americani lo vedono e rimangono folgorati: allora si può fare, il
cinema può essere enorme, i film possono durare ore anziché
25-30 minuti. La lezione di Pastrone
trasforma il cinema in un'arte che compone romanzi ed epopee, non più
racconti e scketch... Per ritrovare un film italiano così influente
a livello planetario bisognerà attendere il 1945, Roma
città aperta, il
neorealismo.»
Il
film aveva una durata di circa tre ore e per girarlo furono impiegate
centinaia di comparse,
effetti speciali,
scenografie
mastodontiche,
perfino degli elefanti. Buona parte di questi effetti speciali, tra
cui l’eruzione dell’Etna, furono realizzati dallo spagnolo Segundo
de Chomón a
cui fu affidata la direzione della fotografia. La sceneggiatura venne
invece firmata da Gabriele
D’Annunzio,
lo scrittore italiano più famoso e venerato di quegli anni.
Oggi
sappiamo però che la sceneggiatura del film fu opera dello stesso
Pastrone, il quale, non solo fu regista e sceneggiatore del film, ma
produttore, adetto ufficio-stampa e un vero genio del marketing
scegliendo,
appunto, a fini pubblicitari, un personaggio noto come D'Annunzio.
Lo scrittore,
in realtà, si limitò
ad inventare i nomi di alcuni personaggi e a supervisionare le
didascalie, redatte dallo stesso Pastrone in perfetto stile
d’annunziano (molto
retorico). Per il
soggetto del film, Pastrone si era ispirato a un racconto di Emilio
Salgari.
Il film
è ambientato durante
la Prima
Guerra Punica.
Cabiria è una bambina, figlia del ricco Bacco. Una notte, durante
l’eruzione dell’Etna, viene salvata dalla nutrice Croessa, ma
rapite dai pirati saranno vendute ai cartaginesi. Cabiria è scelta
per essere sacrificata al dio Moloch. Fulvio Axilla è un romano che
vive a Cartagine con il suo schiavo Maciste. Informati
da Croessa riusciranno a strappare la piccola alle fiamme ma,
caduti vittima di un agguato, dovranno affidare Cabiria alle cure
della regina Sofonisba. Questa è sorella di Annibale, che sta
attraversando le Alpi con le sue truppe. Dopo la salvezza di
Siracusa, dovuta alla genialità di Archimede, Cabiria diventa la
confidente della regina e assiste al suo suicidio proprio mentre
Scipione l’Africano sconfigge i cartaginesi.
La sequenza del tempio di Moloch
L’importanza
di Cabiria
nella storia del cinema è legata principalmente al largo ricorso che
Pastrone fece del carrello e della profondità di campo, dovuti
soprattutto all’esigenza di inquadrare e valorizzare le grandi
scenografie realizzate, che
non erano più dei semplici teloni alla Méliès ma vere costruzioni,
gigantesche, pitturate, stuccate.
Per la prima volta la macchina da presa era montata su un carrello e
si muoveva parallelamente alle scene per sottolineare il movimento
delle masse, o in avanti, per evidenziare un personaggio, o indietro
per mettere in rilievo l'ambiente. Inoltre Pastrone usò la luce
artificiale a fini estetici: prima le lampade elettriche erano usate
solo come surrogato della luce solare, ora invece servivano per
chiaroscuri e controluce. Il film era pieno di scene, per l'epoca,
sensazionali e grandiose che influirono sulla produzione
cinematografica statunitense di De Mille e di Griffith.
In Cabiria
compare per la prima volta un personaggio che avrà molta fortuna nel
cinema italiano: Maciste, personaggio creato da D'Annunzio
sulla base degli eroi coraggiosi della mitologia greca. Pastrone
chiama a interpretarlo un forzuto genovese, Bartolomeo Pagano. È il
fedele e colossale servo di Fulvio Axilla, il salvatore di Cabiria
dalle grinfie dei cartaginesi. Diventerà un peronaggio multiuso: lo
si vedrà in molti peplum (film
storici in costume,
ambientati nel periodo della Grecia antica o della Roma Imperiale,
che ebbero notevole successo
negli anni 50), nonché in molte parodie (Totò contro
Maciste, 1962)
Bartolomeo Pagano nei panni di Maciste
IL
DIVISMO
Nonostante
il genio di Pastrone e il successo internazionale del film, il ruolo
del regista resterà, in Italia, una figura di secondo piano. Oltre
alla diffusa abitudine di attribuire allo sceneggiatore la paternità
dell’opera cinematografica, il regista è anche sottoposto alle
esigenze e al volere dei produttori, come avveniva anche nel cinema
americano coevo, ma in Italia, più che altrove, il suo ruolo è
scavalcato ed insediato da quello delle grandi dive. Sono
queste a scegliere, nella maggior parte dei casi, il tipo di
fotografia, l’inquadratura da effettuare e la sua durata, dove
posizionare la macchina da presa.
Francesca
Bertini,
Eleonora Duse,
Lyda Borelli,
sono le attrici più celebri di questi anni ed in comune hanno tutte
una brillante carriera teatrale alle spalle.
ELEONORA DUSE
FRANCESCA BERTINI
I
loro film sono spesso riproposizioni cinematografiche dei ruoli che
le avevano rese celebri in teatro.
Sono le
protagoniste assolute di drammi passionali, intrighi dell'alta
borghesia e dell'artistocrazia, con ricchi costumi e interni
lussuosi. I personaggi interpretati
sono donne fatali e crudeli, che provocano spesso il suicidio di chi
ne è innamorato. Oppure sono vittime tragiche di un destino avverso.
In molti
casi, le dive si sostituiscono al regista. Francesca Bertini, ad
esempio, rivendicherà come sua la decisione di filmare tra le strade
di Napoli alcune scene di Assunta
Spina (1915), film
considerato precursore del neorealismo.
Da
attrici, prediligono una fotografia che metta in risalto la loro
bellezza, pretendono scene poco tagliate e soprattutto piani larghi
che le ritraggano a figura intera, in modo che possano muoversi
liberamente proprio come su un palcoscenico.
Il cinema
non veniva ancora considerato come una forma d’arte o un
intrattenimento culturale. Il pubblico borghese continuava a
preferirgli il teatro. La presenza di queste grandi dive, la
riproposizione cinematografica di celebri opere teatrali o
letterarie, rappresentava per i produttori un mezzo per nobilitare il
cinema agli occhi del pubblico. Ciò spiega come mai i produttori
dell’epoca sostenessero con tale forza il divismo di queste
attrici.
Il primo
successo di questo genere (chiamato Diva
Film) fu Ma
l'amor mio non muore
(regia di M. Caserini) con Lyda Borelli.
Il
fuoco e Tigre
reale (regia di
Pastrone, 1915-1916) sono esaltazione dell'amore come forza
dirompente e trasgressiva della morale comunemente accettata.
IL FUOCO di Pastrone
IL CINEMA
NAPOLETANO:
ELVIRA NOTARI E LA DORA FILM
Dopo
la prima guerra mondiale il cinema subisce una prima grave crisi che
durerà
fino al 1929. In
questo periodo resistono ancora i drammi passionali e
a Napoli hanno grande successo i
film di Elvira
Notari (1845
-1946) la quale, con
oltre cento cortometraggi e una sessantina di film, sarà la prima
autrice e donna
regista del cinema muto (con
il marito fonderà nel 1912 La
Dora Film).
Fu
antesignana
involontaria del neorealismo per il carattere dei suoi soggetti e
le vicende narrate, tutte ambientate in
una Napoli poverissima
(ragazze
inguaiate e abbandonate, uomini assassini per onore, figli lasciati a
se stessi sulla strada, delitti passionali, regolamenti di conti,
malviventi divenuti tali giocoforza)
e
per la scelta di veri scugnizzi (parola
napoletana che significa raggazzi
di strada)
come attori. È un teatro della povertà quello
che si rappresenta. Si
mette in scena il
contrasto dei sentimenti e delle emozioni, la relatività del torto e
della ragione; lasciando che sia lo spettatore a decidere chi sia il
buono o il cattivo, il colpevole e l’innocente. I film
di Elvira Notari
diventano famosi anche all’estero, soprattutto in Sudamerica,
grazie alla
ripetitività
delle trame, la familiarità dei personaggi e
la celebrità dei
brani musicali napoletani.
E
a Napoli, davanti
alle sale, si formano code interminabili. I
giorni di programmazione si allungano per poter soddisfare un
pubblico assetato di storie nelle quali si riconosce.
Nel
periodo di massimo successo,
la censura comincia a farsi
più rigida. I
film della Dora sono
considerati offensivi nei confronti di
Napoli, poiché
rappresentano
un’immagine di miseria, delinquenza, sporcizia che non corrisponde
allo sforzo di emancipazione della città. I Notari vanno avanti per
la loro strada, senza ascoltare i richiami sempre più duri e
frequenti dopo l’avvento del regime fascista, che esercita in vari
modi la censura e si arroga il diritto della lettura preventiva del
copione. Per quanto riguarda i film della Dora impone didascalie in
italiano al posto di quelle in dialetto.
Nonostante
questo, le sale
registrano il pieno ogni volta che viene proiettato un film della
Dora. Nel 1928, la Commissione Censura invia ai Notari una circolare
che di fatto impone la chiusura dell’attività «Considerato che
siffatti film a base di posteggiatori, pezzenti, scugnizzi, di vicoli
sporchi, di stracci e di gente dedita al dolce far niente, sono una
calunnia per una popolazione che pur lavora e cerca di elevarsi nel
tono di vita sociale e materiale che il regime imprime al paese;
considerato per altro che siffatti film sono eseguiti con criteri
privi di qualsivoglia senso artistico, indegni della bellezza che la
natura ha prodigato alla terra di Napoli, è stato deciso di negarle
in via di massima, l’approvazione dei film che persistono su
circostanze che offendono la dignità di Napoli e l’intera
regione». Il 1930 è l’anno della parola fine.
Soltanto
tre degli oltre 160 titoli firmati dalla regista sono arrivati a noi:
’A
Santanotte
(1922), ‘E
piccerella
(1922), Fantasia
’e surdate
(1927), esempi
eccellenti del film-sceneggiata.
Il CINEMA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA
Il
fascismo, che inizia ad affermarsi all’inizio degli anni ’20, non
si occupa molto di cinema.
Data la crisi economica, in Italia
circolano quasi esclusivamente film
stranieri, in
particolare americani.
Solo verso la fine degli anni venti, con il
successo di alcuni film come Sole
di Alessandro Blasetti e Rotaie
di Mario Camerini, il regime comincia ad intuire le potenzialità di
questa forma d’arte.
Rotaie (1929)
Con l’obiettivo di fornire maggior
visibilità internazionale ai film italiani venne così creata, a
Venezia, nel 1932, la Mostra
Internazionale di Arte Cinematografica
(primo festival cinematografico del mondo). Per sostenere e
controllare la produzione nazionale venne costituita la Direzione
Generale per la Cinematografia
che creò gli studios di Cinecittà
(la
Hollywood italiana),
il Centro
Sperimentale di Cinematografia (una
delle prime scuole di cinema al mondo)
e la rivista critica
Bianco&Nero.
La posa della prima pietra di Cinecittà, 29 gennaio 1936
Ma
il regime fascista concentra la sua attenzione propagandistica
sull'Istituto Luce e sull'ingente produzione di cinegiornali,
notiziari e documentari proiettati nei cinema prima e
dopo il film. Dal 1927 in poi questi cinegiornali descrivono l'Italia
come il migliore dei mondi possibili, come uin paese capace di
ottenere, grazie a Mussolini, una serie di primati in ogni campo,
dalla scienza alla medicina, dall'industria allo sport. È lì, nei
cinegionarli e non nei film di propaganda fascista, che Mussolini è protagonista assoluto.
Non
mancarono di essere prodotti lungometraggi a scopo celebrativo e
propagandistico. È il caso di Camicia
nera
(1933) di
Giovacchino
Forzano, film
corale realizzato per il decennale del partito fascista e che
ricostruisce in maniera del tutto faziosa gli ultimi dieci anni della
storia d’Italia; oppure di film come Vecchia
guardia (1934) di
Alessandro
Blasetti, Scipione
l'Africano
di
Carlo Gallone
(1937),
Luciano
Serra pilota
(1938) di Goffredo
Alessandrini
nei quali si esaltano i valori militari e lo spirito patriottico.
Infine 1860
di
Blasetti (1934)
che
cercava di stabilire una continuità tra Risorgimento e avvento del
fascismo. Questi film
rappresentarono, però, solo una minima parte della produzione
nazionale. Vennero accolti entusiasticamente dalla critica coeva, con
molta indifferenza dal pubblico e non ebbero mai una distribuzione
internazionale.
PIÙ
TELEFONI BIANCHI CHE CAMICE NERE
Poiché
spesso in queste pellicole si mostravano ambienti ricchi e sfarzosi,
il genere venne definito cinema dei telefoni bianchi (in
contrapposizione ai più comuni e popolari telefoni neri).
Il
primo grande successo
di questo genere fu La
canzone dell'amore
di Righelli
(1930),
seguito da La
segretaria privata di Alessandrini (1931)
e T'amerò
per sempre di
Mario Camerini (1933).
Il sonoro incoraggiò il passaggio nel
mondo del cinema dei
comici e degli attori del
varietà e del teatro: Ettore
Petrolini, Totò, Vittorio De Sica.
Lia Franca e Vittorio de Sica in "Parlami d'amore Mariù" dal film Gli uomini, che mascalzoni... di Mario Camerini.
Vittorio De Sica divenne famoso intepretando Gli uomini, che mascalzoni... (1932), Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939), tutti diretti da Mario Camerini.
Gastone è una commedia musicale teatrale di Ettore Petrolini, rappresentata per la prima volta nel 1924.
Lia Franca e Vittorio de Sica in "Parlami d'amore Mariù" dal film Gli uomini, che mascalzoni... di Mario Camerini.
Vittorio De Sica divenne famoso intepretando Gli uomini, che mascalzoni... (1932), Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939), tutti diretti da Mario Camerini.
Scena finale di Gli
uomini, che mascalzoni... (1932),
con un giovanissimo Vittorio De Sica
Con l'inizio della guerra, nel 1940, la produzione cinematografica crebbe ulteriormente, spinta dal regime. Questo permise ad una serie di giovani registi di cimentarsi in film più realisti: La nave bianca di Roberto Rossellini (1941) e I bambini ci guardano di Vittorio De Sica (1943).
Scena da I bambini ci guardano
La vera rottura con tutta la cinematografia
precedente e l'inizio del neorealismo avvenne con il film Ossessione
di Luchino Visconti (1943).
Tratto dal romanzo di J. Cain Il postino suona sempre due volte, il film narra le vicissitudini di un vagabondo (Remo Girotti) e della sua amante (Clara Calamai), complici nell'omicidio del marito di lei. L'ambientazione, i costumi, la recitazione sono di un realismo sconosciuto per l'epoca. Dopo alcune polemiche proiezioni, il film venne rapidamente tolto dalla circolazione.
Tratto dal romanzo di J. Cain Il postino suona sempre due volte, il film narra le vicissitudini di un vagabondo (Remo Girotti) e della sua amante (Clara Calamai), complici nell'omicidio del marito di lei. L'ambientazione, i costumi, la recitazione sono di un realismo sconosciuto per l'epoca. Dopo alcune polemiche proiezioni, il film venne rapidamente tolto dalla circolazione.
IL NEOREALISMO
“Il
Neorealismo non fu mai un'estetica concreta ma un'etica
dell'estetica” (Lino Micchiché)
La tendenza cinematografica
più importante del secondo dopoguerra ebbe luogo in Italia negli
anni 1945-1951: il neorealismo.
Esso non fu un movimento compatto e organizzato come altri che lo
avevano preceduto, ma senza dubbio creò un diverso approccio al
cinema di finzione ed ebbe un’influenza enorme e duratura nel
cinema mondiale.
Il
neorealismo è, senza dubbio, il movimento del cinema italiano che ha
conquistato maggiori consensi e maggiore fama in tutto il mondo.
Ancor oggi il cinema italiano viene spesso identificato con il
neorealismo.
Scena finale del film Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini
Il movimento neorealista può
essere distinto in due fasi: una prima che affronta temi del più
recente passato, gli anni della guerra, la Resistenza;
e una seconda,
a partire dal 1948, che affronta invece temi di rilevanza sociale;
Roma città aperta
(1945) di Roberto
Rossellini
e Ladri
di Biciclette
(1948) di Vittorio
De Sica,
sono i film più rappresentativi di queste due fasi.
Durante il regime fascista nel
cinema, come pure nella letteratura, si era favorito un impulso
realista, basti pensare a film come Quattro
passi tra le nuvole
(1942) di
Alessandro
Blasetti,
I bambini ci
guardano (1943) di
Vittorio
De Sica,
Ossessione
(1942) di Luchino
Visconti.
Nell’Italia uscita dalla
guerra e dalla dittatura, si sentiva il bisogno di una rinascita
politica e sociale. Cineasti e registi vollero farsi artefici di
questo rinnovamento. Proposero un cinema che scavava nella realtà
del presente e del più recente passato, portando alla luce storie,
temi e personaggi di quel mondo che bisognava testimoniare e su cui
bisognava agire. Il cinema neorealista si caratterizza fin da subito
per il suo forte impegno etico e sociale in
contrapposizione al cinema di evasione caratteristico del ventennio
fascista.
L’industria cinematografica
italiana era stata messa in ginocchio dalla guerra, il mercato
nazionale invaso da film americani, gli studios di Cinecittà
erano andati distrutti. Per
questo i registi
scelgono di riportare la cinepresa fuori dagli studi, di tornare a
girare per strada e nelle campagne, con attrezzature leggere ed
economiche.
Questo
favorì
lo sviluppo di prodotti realizzati con pochi mezzi, poco personale, e
una grande dose di improvvisazione e d’ingegno quotidiano.
Scendendo per le strade
i
registi dovevano
fare i conti non solo con le difficoltà del momento, elaborando uno
stile di ripresa immediato,
“documentaristico”, ma si dovevano immergere in una realtà che
era totalmente differente da quella dei teatri
di posa.
Dopo anni di doppiaggio
di film stranieri, gli italiani, avevano ormai perfezionato l’arte
della sincronizzazione del sonoro, le troupe potevano quindi girare
in esterni e registrare i dialoghi in fase di postproduzione.
Immagini vere dell’Italia di quegli anni fanno da cornice a molti
film neorealisti che divengono così preziosi
documenti storici.
Trailer di Roma città aperta
Io non ho paura
Questa scena è tratta da Roma città aperta. I due personaggi, Pina e Francesco, parlano di quello che sta succedendo con la guerra e della Resistenza che si combatte per un futuro migliore
Questa scena è tratta da Roma città aperta. I due personaggi, Pina e Francesco, parlano di quello che sta succedendo con la guerra e della Resistenza che si combatte per un futuro migliore
Un primo piano di Anna Magnani in Roma città aperta
Fu il critico francese André
Bazin, a far
notare, più di ogni altro, quale fosse la vera portata innovativa
del movimento neorealista, concentrando la sua analisi critica
piuttosto che sugli aspetti tecnici, estetici o stilistici, sul nuovo
approccio che questi film mostravano nelle modalità del racconto
cinematografico. Bazin, riprendeva le idee di Cesare
Zavattini,
lo sceneggiatore di De Sica e il più instancabile difensore dell’
estetica neorealista: Zavattini voleva un cinema che presentasse il
dramma nascosto negli eventi quotidiani, come l’acquisto di un paio
di scarpe o la ricerca di un appartamento. Lo
sguardo del regista deve concentrarsi nelle insignificanti epopee
quotidiane, invisibili allo sguardo dello spettatore classico.
'Non pensiamo a niente...Ci ubriacamo, va'...'
da Ladri di biciclette di Vittorio De Sica
- Rappresenta la quotidianità nel suo farsi, adottando un taglio tra il reale ed il documentario: il realismo dell'ambientazione ottenuto abbandonando gli studi di posa a favore delle riprese in esterni e girando nei luoghi stessi in cui si svolge l'azione.
- La scarsità di mezzi, non disporre dei teatri di posa dopo il 1944 costringe a girare nelle strade e ad ambientare i lungometraggi nei luoghi autentici.
- Spostamento d'accento dal singolo alla collettività (narrazione di tipo corale).
- Lucida analisi dei dolorosi scenari evocati e aperta critica verso la crudeltà o l'indifferenza dell'autorità costituita.
- La narrazione di vicende ispirate alla vita quotidiana, ai fatti di cronaca.
- Attenta osservazione della realtà e del comportamento dell’uomo in determinate situazioni storiche e sociali.
- Totale superamento del cinema come puro divertimento ed evasione.
Un'estetica della realtà
L'atto di nascita ufficiale del neorealismo può dirsi costituito dall'uscita di Roma città aperta (1945), girato in condizioni di fortuna (ad esempio, servendosi di pellicola muta e sovente scaduta) tra il '44 e il '45 da Roberto Rossellini. L'esperienza dolorosa della guerra, il trauma dell'occupazione, la resistenza trovano qui efficace rappresentazione.
L'impatto del film è enorme, e apre la strada a tutte le grandi opere del triennio successivo.
A partire dalla presentazione, nel 1946, alla prima edizione del Festival di Cannes, il film conobbe un successo internazionale senza precedenti.
La forza d'impatto di Roma, città aperta trovò subito dopo conferma in Paisà (1946) e Germania anno zero (1948), con i quali Rossellini completava una sorta di trilogia della guerra, in Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di De Sica e in La terra trema (1948) di Visconti.
Del mutato clima politico, morale ed estetico danno testimonianza vari altri film. In alcuni prevale nettamente l'istanza politica, come in Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano che ricostruisce un episodio della Resistenza in una prospettiva corale o in Caccia tragica (1947), lungometraggio d'esordio di Giuseppe De Santis che, accanto a una forte componente populista, fa mostra di una capacità di assimilazioni di moduli del cinema d'azione americano e di un uso funzionale del paesaggio.
Rapidamente, lo spirito neorealista emerge anche in diversi registi di origine e collocazione diversa: da Lattuada a Castellani, da Zampa a Germi, da Blasetti a Soldati.
Frattanto, in Italia, le elezioni del '48 segnano la netta sconfitta delle sinistre, ricacciate all'opposizione dopo la parentesi post-resistenziale. Il clima culturale di fermento e di cambiamento inizia ad arrestarsi. Anche l'esperienza neorealista comincia un inesorabile declino.
Instauratosi un governo moderato di impronta filostatunitense, la rottura della solidarietà postbellica diviene definitiva: mentre il grande capitale torna ad affermarsi, venti di conservazione spirano vigorosi sul paese. La politica culturale tende verso un ottimismo di facciata. Esporre e rappresentare i dolori e le miserie d'un popolo vinto inizia ad infastidire il potere.
Lo scopre a sue spese De Sica che - già al centro di polemiche per le sue opere - viene attaccato per il magnifico Umberto D., lucida e rigorosa descrizione della misera solitudine d'un pensionato: l'accusa è quella di presentare un quadro impietoso della vita quotidiana. S'invoca a gran voce un raggio di sole da parte di giovani politici democristiani destinati a fare carriera.
Cesare Zavattini e il ruolo degli sceneggiatori
Lo stretto legame con la cronaca e il costume è forse il tratto che può accomunare le diverse personalità che diedero vita al movimento. In questa direzione, un ruolo centrale fu svolto da Cesare Zavattini. Scrittore, giornalista e sceneggiatore, Zavattini scrisse tutti i principali film di De Sica: Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D. (1952), e collaborò anche con tutti i principali registi: da Visconti a De Santis, da Blasetti a Zampa e Germi, svolgendo inoltre un'infaticabile attività di proposta, di riflessione teorica e di provocazione morale.
E’ riuscito, almeno nei suoi film migliori, a sviluppare un discorso approfondito sulle contraddizioni e sulle miserie di quegli anni, mettendo in luce i risvolti di un’apparente benessere costruito sull’ingiustizia sociale e sullo sfruttamento dell’uomo.
Individua nel “pedinamento del personaggio” la possibilità di cogliere con la cinecamera la vera realtà quotidiana. Con De Sica questa teoria verrà portata alle estreme conseguenze formali: i materiali, i luoghi, gli ambienti, le situazioni, scelti per il loro carattere emblematico, dovevano costituire loro stessi materiale drammatico attorno cui costruire la denuncia sociale e politica. Il pedinamento era l’unica possibilità per far sì che il personaggio diventasse il centro dell’azione drammatica e il filo conduttore della rappresentazione documentaristica della realtà sociale (immerso nel reale quotidiano, il personaggio si muoveva liberamente e naturalmente nel suo ambiente).
Trailer di MIracolo a MIlano
- Lucida analisi dei dolorosi scenari evocati e aperta critica verso la crudeltà o l'indifferenza dell'autorità costituita.
- La narrazione di vicende ispirate alla vita quotidiana, ai fatti di cronaca.
- Attenta osservazione della realtà e del comportamento dell’uomo in determinate situazioni storiche e sociali.
- Totale superamento del cinema come puro divertimento ed evasione.
Un'estetica della realtà
L'atto di nascita ufficiale del neorealismo può dirsi costituito dall'uscita di Roma città aperta (1945), girato in condizioni di fortuna (ad esempio, servendosi di pellicola muta e sovente scaduta) tra il '44 e il '45 da Roberto Rossellini. L'esperienza dolorosa della guerra, il trauma dell'occupazione, la resistenza trovano qui efficace rappresentazione.
L'impatto del film è enorme, e apre la strada a tutte le grandi opere del triennio successivo.
A partire dalla presentazione, nel 1946, alla prima edizione del Festival di Cannes, il film conobbe un successo internazionale senza precedenti.
Roma città aperta,
film completo con sottotitoli in spagnolo
La forza d'impatto di Roma, città aperta trovò subito dopo conferma in Paisà (1946) e Germania anno zero (1948), con i quali Rossellini completava una sorta di trilogia della guerra, in Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di De Sica e in La terra trema (1948) di Visconti.
Del mutato clima politico, morale ed estetico danno testimonianza vari altri film. In alcuni prevale nettamente l'istanza politica, come in Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano che ricostruisce un episodio della Resistenza in una prospettiva corale o in Caccia tragica (1947), lungometraggio d'esordio di Giuseppe De Santis che, accanto a una forte componente populista, fa mostra di una capacità di assimilazioni di moduli del cinema d'azione americano e di un uso funzionale del paesaggio.
Rapidamente, lo spirito neorealista emerge anche in diversi registi di origine e collocazione diversa: da Lattuada a Castellani, da Zampa a Germi, da Blasetti a Soldati.
Frattanto, in Italia, le elezioni del '48 segnano la netta sconfitta delle sinistre, ricacciate all'opposizione dopo la parentesi post-resistenziale. Il clima culturale di fermento e di cambiamento inizia ad arrestarsi. Anche l'esperienza neorealista comincia un inesorabile declino.
Instauratosi un governo moderato di impronta filostatunitense, la rottura della solidarietà postbellica diviene definitiva: mentre il grande capitale torna ad affermarsi, venti di conservazione spirano vigorosi sul paese. La politica culturale tende verso un ottimismo di facciata. Esporre e rappresentare i dolori e le miserie d'un popolo vinto inizia ad infastidire il potere.
Lo scopre a sue spese De Sica che - già al centro di polemiche per le sue opere - viene attaccato per il magnifico Umberto D., lucida e rigorosa descrizione della misera solitudine d'un pensionato: l'accusa è quella di presentare un quadro impietoso della vita quotidiana. S'invoca a gran voce un raggio di sole da parte di giovani politici democristiani destinati a fare carriera.
Cesare Zavattini e il ruolo degli sceneggiatori
Lo stretto legame con la cronaca e il costume è forse il tratto che può accomunare le diverse personalità che diedero vita al movimento. In questa direzione, un ruolo centrale fu svolto da Cesare Zavattini. Scrittore, giornalista e sceneggiatore, Zavattini scrisse tutti i principali film di De Sica: Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D. (1952), e collaborò anche con tutti i principali registi: da Visconti a De Santis, da Blasetti a Zampa e Germi, svolgendo inoltre un'infaticabile attività di proposta, di riflessione teorica e di provocazione morale.
Zavattini, con l'insieme della sua frenetica attività, costituì l'anello di congiunzione tra cinema, letteratura e giornalismo dalla cui interazione derivano molti dei caratteri originali del cinema italiano del secondo dopoguerra, dal neorealismo alla "commedia all'italiana".
E’ riuscito, almeno nei suoi film migliori, a sviluppare un discorso approfondito sulle contraddizioni e sulle miserie di quegli anni, mettendo in luce i risvolti di un’apparente benessere costruito sull’ingiustizia sociale e sullo sfruttamento dell’uomo.
Individua nel “pedinamento del personaggio” la possibilità di cogliere con la cinecamera la vera realtà quotidiana. Con De Sica questa teoria verrà portata alle estreme conseguenze formali: i materiali, i luoghi, gli ambienti, le situazioni, scelti per il loro carattere emblematico, dovevano costituire loro stessi materiale drammatico attorno cui costruire la denuncia sociale e politica. Il pedinamento era l’unica possibilità per far sì che il personaggio diventasse il centro dell’azione drammatica e il filo conduttore della rappresentazione documentaristica della realtà sociale (immerso nel reale quotidiano, il personaggio si muoveva liberamente e naturalmente nel suo ambiente).
Trailer di MIracolo a MIlano
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